È appena stato pubblicato un libro che spara in alto. E lo fa sotto l’insegna della nostra nuova Associazione. A scriverlo è Claudio Antonio Testi, segretario dell’Istituto filosofico di studi tomistici e nostro socio. Lo studio è intitolato «Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien», edito dalla ESD-Edizioni Studio Domenicano (224 pp., 22 euro – in copertina immagine di Ivan Cavini), e conclude un percorso a cui il filosofo modenese ha dedicato cinque anni di lavoro. L’opera di Tolkien è cristiana o pagana? La domanda ha interpellato lettori e studiosi fin dalla pubblicazione del Signore degli Anelli. Nonostante la notorietà «planetaria» di Tolkien, grazie anche ai film di Peter Jackson, questo dubbio non è ancora stato sciolto con quella completezza critica che merita un autentico classico della letteratura. Il volume è un tentativo in questa direzione. Crediamo che questo lavoro possa essere un riferimento fondamentale per lo studio sugli aspetti più filosofici e religiosi nelle opere di J.R.R. Tolkien. Anche perché, anche su questo importante tema, lo scrittore inglese merita di più. È per questo motivo che, mentre l’inchiostro si sta ancora asciugando, vi proponiamo già una recensione di chi il libro l’ha potuto leggere in anteprima. Buona lettura!
UN TOMISTA NELLA TERRA DI MEZZO di Wu Ming 4
1. E ora qualcosa di completamente diverso
La nicchia degli studi italiani su Tolkien sta per essere colpita da un meteorite. Probabilmente l’impatto non sarà sufficiente a provocare l’estinzione dei dinosauri che da tempo sopravvivono in quell’habitat, ma c’è comunque da augurarsi che il fall-out faccia danni. Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien è il meteorite. L’autore non è uno di quegli estimatori italiani di J.R.R. Tolkien i cui nomi compaiono nei commentari alle opere pubblicate da Bompiani, né si trova come il prezzemolo ovunque vi sia una sagra celtica o una festa Hobbit o un convegno di teologi (anche se non disdegna affatto frequentare quei contesti). Non è nemmeno un compilatore o un collezionista in posa da erudito (anche se possiede la copia della Summa Theologiae appartenuta personalmente a Tolkien, con le sue annotazioni a margine). E’ uno che ha davvero avuto accesso alla Tolkien Special Collection della Bodleian Library di Oxford, dove sono conservati gli scritti inediti, consultabili soltanto sotto vincolo di non divulgazione (e che può comunicare delle vere scoperte anziché millantarle). Si chiama Claudio Antonio Testi ed è uno studioso dell’opera di Tolkien. Gli appassionati lo conoscono soprattutto come direttore della collana “Tolkien e dintorni” per la casa editrice Marietti 1820, nella quale compaiono i più importanti saggi stranieri sulla materia. Chi lo conosce un po’ di più sa anche che è un filosofo tomista, ovvero il segretario dell’Istituto filosofico di studi tomistici di Modena. Infine, è tra i soci fondatori della neonata Associazione Italiana Studi Tolkieniani. Anche questo non è un dettaglio da poco, dato che il suo saggio segna un punto di svolta per quanto riguarda le letture cattoliche del Legendarium tolkieniano in Italia, proiettandosi oltre l’approccio simbolico-confessionale e proponendone uno completamente diverso. Come si intuisce dal titolo, infatti, quella di Testi è una lettura teologica del mondo immaginario creato dall’autore inglese. Tuttavia non è una complicata dissertazione teoretica, bensì un’esposizione semplice e lineare, quasi schematica, interamente basata sui testi, comprensibile da qualunque appassionato della materia, e che proprio grazie a questo stile espositivo si contiene in 180 pagine. A questa premessa si aggiunge che il saggio contiene forse la prima tesi originale proposta da uno studioso italiano al dibattito internazionale sull’autore de Lo Hobbit e del Signore degli Anelli. Non per niente è stato preceduto da un articolo ospitato sul numero 10 della rivista monografica Usa Tolkien Studies (West Virginia University Press, 2013), nel quale Testi anticipava la sua tesi per il contesto anglofono. Da principio però il saggio si impegna a confutare almeno tre approcci diversi alla narrativa di Tolkien, che potremmo sommariamente definire «confessionale», «neo-pagano» e «contraddittorio».
2. Superare i riduzionismi: crociati e neopagani
Innanzi tutto il saggio affronta le interpretazioni che rintracciano nelle storie di Tolkien un simbolismo di chiara matrice cristiano-cattolica e considerano l’epica tolkieniana «un mito specificamente cristiano» (Joseph Pearce). Queste letture, spiega Testi, esaltano le analogie possibili tra le figure che compaiono nella Terra di Mezzo e quelle biblico-evangeliche, sottacendo o ridimensionando le differenze che invece intercorrono tra loro. Frodo infatti non può essere un alter Christus, dato che è una figura tragica, non risorge, e nemmeno sappiamo se nelle terre dei Valar riuscirà a guarire; il lembas elfico non può simboleggiare l’eucarestia, dato che non ha nulla a che vedere con la transustanziazione; la ribelle Galadriel non può rappresentare certo l’immacolata Maria, che pure magari ne ha ispirato la figura. E si potrebbe aggiungere che Tom Bombadil non è San Francesco (anzi, non è proprio chiaro «cosa» sia), così come l’angelo Gandalf non è San Pietro. Ciò non toglie, afferma ancora Testi, che sia possibile utilizzare queste figure come metafore per ricavarne una lettura evangelica, ma questo pertiene all’ambito di quella che Tolkien definiva l’applicabilità di una storia. Scrive Testi: «Dipanare quel simbolismo è certo legittimo come una possibile applicazione, ma non come interpretazione del testo che, in quanto tale, deve basarsi su “logiche” interne al testo stesso» (p. 39). E ancora: «Un conto è “applicare” il Legendarium per illustrare i contenuti della propria fede, altro è “scambiare” tali applicazioni con delle interpretazioni che colgono il significato profondo del testo» (p. 41). E’ appunto quello che fanno i lettori confessionali, i quali ignorano arbitrariamente le differenze tra la mitologia tolkieniana e quella cristiana e astraggono le figure simboliche dalla trama, schiacciando così il significato dell’opera sulla dottrina cattolica. Testi ad esempio fa notare come nella mitologia ebraico-cristiana il male entri nel mondo a creazione avvenuta, corrompendo l’Uomo, mentre nella cosmogonia tolkieniana il male è presente già nella Musica degli Ainur e precede la creazione degli esseri viventi. In Eä la stonatura e il conflitto sono già in atto al momento della creazione del mondo. Se si volesse affrontare la faccenda da un’ottica dottrinale non sarebbe certo una differenza di poco conto (tant’è che alcuni dei suddetti autori arrivano perfino a negarne l’evidenza pur di far quadrare i conti). Chiamando in causa il parere dello stesso Tolkien, Testi ci ricorda che la Terra di Mezzo è un mondo in tutto e per tutto pagano, ma che non ricalca il paganesimo storico, bensì ne reinventa un altro, di tipo monoteistico, che a tratti riecheggia il cristianesimo, senza però diventarne mai l’allegoria.
La confutazione delle interpretazioni “pagane” è altrettanto inappellabile. Queste incorrono nello stesso errore riduzionistico di cui sopra, ribaltandolo: cercano esclusivamente gli elementi di disaccordo o disarmonia tra Legendarium tolkieniano e teologia cristiana, ignorando forzatamente le analogie. Ad esempio la presenza di un pantheon simile a quello degli dèi pagani viene registrata senza tenere conto che le essenze angeliche che lo compongono sono emanate da un creatore, chiamato Eru. Se dunque la creazione compete esclusivamente a un solo dio increato, il quale poi lascia ai Valar il compito di governare il mondo, è evidente che Eru e i Valar non sono sullo stesso piano, e che i secondi non agiscono a proprio piacimento, bensì in accordo o – nel caso di Melkor – disaccordo con il primo. Ma soprattutto tali entità fanno parte di un piano provvidenziale, una forza che agisce nel mondo dando un senso alla storia universale, la quale quindi assume una direzione lineare, come nelle religioni monoteistiche. Ancora: Testi sottolinea come l’amore per il mondo naturale che emerge dalle pagine tolkieniane – e che secondo gli esegeti neopagani sarebbe estraneo al cristianesimo visto come religione antimondana – non contraddice affatto quei percorsi teologici che partono proprio dalla contemplazione e comprensione del creato per arrivare alla più ampia comprensione dell’esistenza di un creatore. «Come l’approccio esplicitamente cristiano, anche quello esclusivamente pagano riduce la vastità della prospettiva tolkieniana poiché, come si è visto, porta gli autori a ignorare elementi importanti del Legendarium o a forzare i testi […] nell’intento di vedervi infondati elementi neopaganeggianti» (67).
In Italia, del resto, alcuni noti esponenti di questo filone interpretativo non fanno mistero delle forzature che mettono in atto sul testo, anzi, le rivendicano come modus operandi, magari ispirato da qualche maître à penser tradizionalista come Renè Guenòn o Julius Evola. Costoro non sono interessati a cogliere la stratificazione di significati contenuti o evocati da un’opera letteraria, in essa cercano soltanto di rinvenire una serie di figure e simboli «tradizionali», a proprio uso e consumo. Secondo Testi si tratta del «più grave limite di questo approccio, che tende ad ignorare sia la complessità degli scritti tolkieniani sia i più seri studi critici in merito, i quali non permetterebbero di proporre così liberamente certe associazioni» (p. 66). Ma come l’autore fa notare in un altro passo a proposito di tanti autoproclamati esperti di Tolkien, «è sufficiente esaminare la bibliografia dei testi più citati o verificare la presenza effettiva dei loro autori a convegni esteri per rendersi conto del limitato respiro dei nostri studiosi tolkieniani» (p. 24). Testi dimostra, pagine alla mano, come questi autori nostrani si citino sempre l’uno con l’altro, in un circolo vizioso che produce una riflessione completamente autarchica, il cui contributo al dibattito su Tolkien risulta di conseguenza prossimo a zero.
3. Alzare il livello del dibattito: contraddizione o armonia
Liberato il campo dai riduzionisti, Testi deve affrontare un terzo gruppo di interpreti, che è anche il più nutrito, con i quali sente di condividere almeno una visione più vasta e complessa dell’opera e della poetica tolkieniana. In questo caso non si tratta di una compagine, ma piuttosto di una nebulosa di studiosi, riconducibile all’idea – variamente declinata – che il mondo raccontato da Tolkien sia composto da elementi cristiani e pagani e che questi si compenetrino e confliggano, dando vita a una visione irriducibile a un unico schema coerente.
La più autorevole esponente di questa linea esegetica è niente meno che Verlyn Flieger. Ma si potrebbe aggiungere anche Tom Shippey, che Testi segue su certe affermazioni più prossime alle propria visione (ad es. quelle che vedono gli eroi della Terra di Mezzo come “pagani virtuosi”) e rifiuta invece per altre (ad es. il riconoscimento di un margine di ambiguità nella rappresentazione tolkieniana del male o l’attribuzione a Tolkien di una severa critica all’eroismo pagano).
Ma è soprattutto con Flieger che Testi sceglie di confrontarsi. La studiosa americana sostiene che non solo la narrazione tolkieniana sfrutta diversi punti di vista, tramite l’espediente dei diversi collettori e redattori delle storie di Arda e della Terra di Mezzo, ma anche che a volte questi punti di vista entrano in contraddizione tra loro. Un esempio è Athrabeth Finrod ah Andreth, il dialogo (pubblicato postumo nella History of Middle-Earth) tra un elfo e un’umana, nel quale vengono fornite due visioni molto diverse circa il destino delle rispettive razze. In quelle pagine per Flieger sarebbe evidente il tentativo (tardo) da parte di Tolkien di introdurre nella sua creazione di mondo elementi della teologia e soteriologia cristiana, come il peccato originale, la resurrezione dei corpi, l’apocalisse. Tentativo fallimentare, secondo Flieger, che lo portò a commettere l’errore da lui stesso stigmatizzato negli autori del ciclo arturiano: fare riferimenti diretti alla religione cristiana. Testi sostiene invece che quel dialogo non entra in contraddizione con quanto affermato da Tolkien in precedenza, dal momento che a guardare bene non ha contenuti “esplicitamente cristiani”. In quel testo Tolkien starebbe piuttosto “spingendo al massimo il potere ‘conoscitivo’ della sub-creazione fantastica” (p. 84). Nel dialogo infatti non si trattano verità rivelate, ma si ragiona alla maniera di Socrate-Platone, giungendo a conclusioni che se riecheggiano il cristianesimo lo fanno però tramite il ragionamento filosofico, appunto, e non la religione o la fede. Dunque i contenuti del dialogo in questione sarebbero speculativi e non andrebbero a collidere con l’impostazione aconfessionale della subcreazione tolkieniana. C’è poi chi (in Italia il sottoscritto Wu Ming 4) si spinge oltre la ricerca di incoerenze interne al Legendarium, e – per difetto d’impostazione, secondo Testi – arriva ad applicare al medesimo una lettura dialettica, producendo un’immagine del mondo tolkieniano che si rinnova continuamente proprio grazie alle sue contraddizioni interne. Al di là delle specifiche obiezioni mosse da Testi (che affronterò in altra sede), ciò che lui stesso ammette essere il problema di fondo di questa chiave di lettura è la sua parzialità e frammentarietà: «Quello che però a mio avviso è un limite reale di tale approccio è che, volendo questi ravvisare elementi contraddittori nell’opera tolkieniana (anche dove questi non sono presenti), è di principio incapace di inquadrare in un tutto unitario gli scritti di Tolkien» (p. 91-92). È precisamente quello che si propone di fare Testi a conclusione del suo saggio: trovare lo sguardo d’insieme, dimostrare che la sub-creazione tolkieniana è pagana e al tempo stesso in armonia col cristianesimo, attraverso un approccio «sintetico». Secondo Testi il mondo secondario descritto da Tolkien è debitore della sua visione della storia, che è storia della grazia. Proprio in quanto cattolico, Tolkien non vede l’avvento del cristianesimo come negazione del paganesimo, bensì come santificazione dei suoi aspetti virtuosi. Il rapporto della Terra di Mezzo con la rivelazione cristiana è lo stesso che intercorre tra gli antichi poemi anglosassoni amati da Tolkien (i cui eroi erano pagani) e la consapevolezza dei loro anonimi estensori già evangelizzati. Tra il mondo «naturale» che ci racconta Tolkien e quello dell’Avvento, così come tra il pagano fato elfico e la provvidenza cristiana, non c’è contraddizione, bensì armonia nella differenza.
Al fondo di questa idea si può trovare la teoria della praeparatio evangelii, cioè la convinzione che nel mondo pagano si fossero prodotti dei prerequisiti di cristianesimo. Lo scarto compiuto da Tolkien però sta nell’avere ignorato il piano della consequenzialità cronologica ed essersi concentrato sulla simultaneità di problemi universali, che trascendono le singole epoche storiche. Testi rintraccia elementi di questa visione armonica e transtorica tanto nel Saggio sulle Fiabe, quanto negli studi di Tolkien sui poemi anglosassoni. L’eternità di un personaggio come Beowulf sta nel suo essere un uomo davanti alla minaccia del male; lo stesso si dirà degli eroi della Terra di Mezzo, che non sono santi cristiani, bensì astrazioni fantastiche, «uomini naturali» che sperimentano la validità delle virtù cristiane come virtù universali. Se dunque la prospettiva teologica del mondo secondario tolkieniano è essenzialmente pagana – ancorché, come abbiamo visto, creazionistica e monoteistica – essa tuttavia non contraddice la rivelazione, ma è anzi in armonia con essa. Ecco perché Tolkien poteva dire che Il Signore degli Anelli è un’opera «fondamentalmente religiosa e cattolica» (lettera 142), anche se nel romanzo non vi è alcuna citazione o allegoria che lo lasci intendere, e anche se il mondo che ci racconta è addirittura privo di qualsiasi culto strutturato. Quell’affermazione non va letta in un’accezione confessionale, ma filosofica. L’esclusione della religione esplicitamente vissuta – forse l’elemento più fantastico e inverosimile della Terra di Mezzo, insieme all’assenza di una storia materiale – è ciò che consente a Tolkien di prendere gli esseri umani al grado zero, per così dire, per metterli davanti ai grandi problemi dell’esistenza senza dogmi di fede e rivelazioni, armati solo della propria intelligenza e senso etico. Alla base della creazione di Arda e della Terra di Mezzo dunque si trova quella visione universalistica cristiana che non esclude i pagani dal piano della grazia e della salvezza e che colloca nella natura umana la capacità di agire in accordo con tale piano. Ponendosi in quest’ottica, che Testi definisce aristotelico-tomistica, è quindi possibile cogliere l’unitarietà dell’intero Legendarium, come manifestazione di un’unica visione ampia e coerente.
4. Smussare gli angoli: Tolkien o la filosofia
Non esiste un saggio critico basato su una proposta forte che non si presti anche a forti obiezioni. La prima obiezione che si può muovere al saggio di Testi è di ordine metodologico e riguarda l’intento dichiarato di «inquadrare in un tutto unitario gli scritti di Tolkien», quando è Tolkien stesso a non esserci riuscito. Se c’è un autore che ha trascorso la vita a riscrivere, correggere, perfezionare il proprio mondo immaginario, quello è Tolkien. La sua sub-creazione è rimasta sempre in divenire, e benché l’autore non abbia mai smesso di perseguire la coerenza interna, non è riuscito a trovare l’ultima parola. Questo dovrebbe rendere prudenti nel considerare il Legendarium come un lavoro compiuto e coerente in ogni sua parte. Basti dire che molti testi tolkieniani usati come fonti sono spuri, pubblicati in diverse versioni, incorniciati da note del curatore, mai licenziati per la stampa dall’autore. Quello che possiamo dire è che dopo la morte di Tolkien qualcuno ha cercato di ricostruire l’ordine cronologico e filologico di quegli scritti e ne ha resa pubblica una selezione, ma senza rendere liberamente accessibile l’archivio delle fonti. La ricezione di Tolkien è quindi viziata dalle scelte dei “draghi” custodi del tesoro (per dirla con Tom Shippey). La seconda obiezione riguarda proprio l’approccio sintetico proposto da Testi. Se è vero infatti che questo approccio risolve le contraddizioni teologiche del Legendarium, svelandone l’algoritmo filosofico, per così dire, questo vale soprattutto per il piano generale. Quando Testi pretende invece di risolvere con la stessa modalità le contraddizioni interne al racconto, che hanno una finalità narrativa e drammatica, la sintesi risulta forzata, e in certi casi è ottenuta usando la pialla.
Ad esempio, per fare rientrare nella sua visione armonizzante la dura presa di posizione di Tolkien sull’eroismo nordico che sta al centro della piéce drammaturgica Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, Testi deve attribuire all’autore un equanime «doppio monito» verso l’eccesso d’orgoglio pagano e la sommaria condanna cristiana (p. 122). Ma non c’è un solo rigo in quelle pagine che faccia intendere questo. Non c’è traccia di «doppio monito» nella scena comica citata da Testi, nella quale il contadino Tìdwald è amaramente sarcastico nei confronti dell’ingenuo menestrello Torhthelm e definisce «pagano» il suo poetare sull’oscurità che trionfa dopo il sacrificio degli eroi di Maldon. Non ce n’è traccia nelle parole di Tolkien, quando afferma che “lo spirito eroico nordico non si presenta mai allo stato puro”, ovvero è sempre inquinato dall’orgoglio e dall’onore personale che lo rendono ambiguo ab origine. La contraddizione è tutta lì, nelle parole dell’autore, come del suo alter ego Tìdwald. La sintesi sarà ancora narrativa, ma avverrà altrove, nel Signore degli Anelli, proprio attraverso quei nuovi personaggi che Testi chiama «santi pagani».
Lo stesso si può dire circa il tentativo di ridurre il conflitto tra civiltà e natura nella Terra di Mezzo a semplice «tensione», definendo la Contea come un esempio di ricomposizione degli attriti in un quadro «unitario ed equilibrato» (p. 91). Un’affermazione questa che prescinde dal racconto, dove invece si trova la cruenta guerra degli Hobbit contro gli alberi; la costruzione di una Siepe/Muraglia che tiene fuori la foresta; il tentativo di vendetta della Vecchia Foresta nei confronti di Frodo e compagni; nonché le parole del saggio elfo Gildor allo stesso Frodo, chiarissime sulla transitorietà della società degli Hobbit.
Dimostrare, come fa brillantemente Testi, che il mondo pagano della Terra di Mezzo è diverso ma non in contraddizione con la visione cristiana, non disinnesca le contraddizioni che i personaggi di Tolkien sperimentano all’interno di quel mondo.
Prima di essere un dialogo platonico, Athrabeth Finrod ah Andreth è un pezzo di letteratura nel quale due dramatis personae affrontano problemi e sentimenti quali la morte, il tempo e la relazione di questi con l’amore. A prescindere dal suo statuto filosofico e dalla compatibilità con la visione dominante nel Legendarium, il dialogo ha al centro la contraddizione tra la morte come dono (mito elfico) e la morte come condanna (mito degli Uomini), che ci parla della condizione umana.
Quanto detto sopra vale anche per il dialogo tra Éomer e Aragorn nel terzo libro, capitolo secondo, del Signore degli Anelli, nel quale viene tematizzato il conflitto tra legge positiva e legge morale. Anche in questo caso, secondo Testi, la presenza di una conflittualità non negherebbe l’armonia di fondo, perché – come già sostenuto da Tommaso d’Aquino – l’applicazione delle leggi morali alle circostanze contingenti presuppone sempre l’attività della ragione e della coscienza, che di volta in volta deve scegliere come tradurre nello specifico un principio generale, cercando appunto l’armonia tra generale e particolare. Questa riflessione però non allevia di un grammo il peso della scelta dei due personaggi, che ha come posta la vita stessa. Violare la legge morale per rispettare la legge positiva o, viceversa, violare la legge positiva per rispettare la legge morale, significa affrontare una contraddizione concreta, che troverà soluzione soltanto nella storia, intesa come intreccio e come dramma.
In definitiva Testi non considera che non c’è bisogno di essere materialisti dialettici per accorgersi che, proprio perché può essere ricomposta o superata, la contraddizione è il motore di ogni narrazione; così come il dilemma connota ogni personaggio efficace fin dai tempi della tragedia greca. Se gli eroi di Tolkien non vivessero in una dimensione in cui l’armonia è certo realizzabile, ma solo affrontando e superando la contraddizione, ed è quindi sempre precaria e temporanea, allora sarebbero archetipi senz’anima o icone buone per i giochi dei simbolisti. Se li sentiamo vicini, e così moderni, è invece perché ci parlano della difficoltà di un’esistenza esposta al conflitto, al divenire, alla necessità di scegliere in assenza di saldi parametri. E questa è una chiave importante dell’universalità delle storie di Tolkien, non meno – e, anzi, forse più – della loro compatibilità con la teologia naturale.
(1/2 – continua…)
Il volume Santi pagani nella Terra di mezzo di Tolkien è stato presentato nell’ambito del nuovo ciclo del Tolkien Lab – Laboratorio tolkieniano permanente di Modena, promosso dall’istituto filosofico di studi tomistici e l’Associazione italiana di studi tolkieniani, mercoledì 8 ottobre alle ore 20,45 a Modena. Sono intervenuti Claudio Testi e Wu Ming 4. A Roma, il volume è stato presentato il 26 ottobre 2014, alle 17,00 presso la nuova sala consiliare del Municipio V (in via Togliatti) all’interno della manifestazione AMArti. Intervenuti Claudio Testi e Roberto Arduini.
LINK ESTERNI
– vai al sito del Tolkien Lab
– vai al sito delle Edizioni Studio Domenicano
– vai al sito dell’Istituto filosofico di studi tomistici
– vai al sito della casa editrice Marietti 1820
.
Recensione accattivante di un libro affascinante, ma particolarmente stridente a principio:
“Non è nemmeno un compilatore o un collezionista in posa da erudito (anche se possiede la copia della Summa Theologiae appartenuta personalmente a Tolkien, con le sue annotazioni a margine). E’ uno che ha davvero avuto accesso alla Tolkien Special Collection della Bodleian Library di Oxford, dove sono conservati gli scritti inediti, consultabili soltanto sotto vincolo di non divulgazione (e che può comunicare delle vere scoperte anziché millantarle). Si chiama Claudio Antonio Testi ed è uno studioso dell’opera di Tolkien.”
Se il suo significato è “i collezionisti non sono (mai) studiosi” (un’inferenza alquanto difficile da ignorare), mi sembra un po’ ingenerosa, non voglio pensare che WM4 sia all’oscuro della storia di alcuni dei più importanti studiosi di Tolkien, alcuni dei quali hanno cominciato come collezionisti. Penso a Wayne Hammond e a Christina Scull, a Douglas A. Anderson, a John D. Rateliff, a Richard C. West e a Richard E. Blackwelder (senza il quale non esisterebbe la collezione alla Marquette) e ad altri ancora. Dei primi 4 sono sicuro che hanno avuto accesso alla Bodleian.
Se il suo significato è semplicemente definire Claudio Testi, non si capisce la necessità di specificare cosa non è con perifrasi scagliate qua e là. E credo che qualcuno dei succitati avrebbe qualcosa da ridire circa il fatto che chi possiede la Summa Theologia appartenuta a Tolkien non sia un collezionista, posa o non posa.